Barbara Paganin: il segno dell’inquietudine
Mai c’è stata quest’ora, o questa luce, o questo mio essere. Ciò che sarà domani sarà un’altra cosa e ciò che vedrò sarà visto da occhi ricomposti, pieni di una nuova visione. Il libro dell’inquietudine – Fernando Pessoa
Di Barbara Paganin non ne ho conosciuta una, ma cinque. Cinque, mi piace come numero, non è esagerato, ma consistente ed è la metà di dieci, è una mano tutta intera, è una famiglia numerosa (almeno in Italia). Cinque, per la forza e la capacità creativa moltiplicata e condensata in una sola persona. Sdoppiata e ricomposta ogni volta e per cinque volte.
Il mio percorso nella conoscenza dei lavori di quest’artista (veneziana, 50 anni) è sicuramente frastagliato, irregolare. Negli anni mi capitava di vedere pubblicata una sua opera (per esempio Fiore di luce) poi qualche tempo dopo, su un libro o su internet, trovare l’immagine di un altro suo gioiello (poteva essere per esempio la papaya rossa o la fettina di cetriolo) che mi attirava e mi inquietava. Erano opere il cui legame reciproco era sotterraneo: sempre fortemente presente, ma poco percepibile con gli occhi, molto di più per istinto.
E così, dopo aver conosciuto dal vivo un indimenticabile broccolo verde (a Schmuck quest’anno) e poi a Collect il collier arancio di cavolfiore romano (come, chi di Roma non è, chiama appunto il nostro broccolo romanesco) finalmente sono andata a incontrare da vicino le opere.
Mi rendo conto ora mentre scrivo che mi è impossibile raccontare “in generale” di questi lavori. Semplicemente perché nell’artista il concetto di “generale” non esiste. Le sue opere sono quasi come i personaggi inventati di un romanziere, che non si conoscono tra loro.
È così che appaiono mentre li osservo e li rigiro: guardinghi e inquieti “esseri”, temporaneamente in transito nello stesso cassetto. Offesi forse un po’ di essere esaminati, tanto che ogni volta mi mostrano un’altra faccia.
Per esempio le spille, che io chiamo archeologiche perché provenienti da pezzi di ceramica antica ritrovati dall’artista stessa e poi trasformati, sono tronconi di passato interrotto che si riavviamo a nuova vita ogni volta che li si guarda dall’alto o di lato.
O come l’anello qui sopra: una scultura contorta e dolorosa che solo se lo si osserva a lungo e con attenzione si capisce che “è” un mucchio di piccole scarpe di bambola…
C’è da dire che in una cosa Barbara Paganin è “riconoscibile”, nel senso più visibile del termine. Non lascia mai soli i suoi “oggetti”: li fa sempre accompagnare da un’ombra benevola lanciata in avanti. Quando lei stessa si immerge a capofitto nel fare – e prima nell’imparare, tecniche come il vetro o la porcellana – rassicura il suo nuovo oggetto creato bucherellandogli attorno il suo nido di protezione.
Vivere è essere un altro. Neppure sentire è possibile se si sente oggi come si è sentito ieri: sentire oggi come si è sentito ieri non è sentire, è ricordare oggi quello che si è sentito ieri, è essere oggi il cadavere vivo di ciò che ieri è stata la vita perduta. (idem)
Nel suo repertorio c’è anche una galleria di ritratti di antenati: sono tre cime di cavofiore di vetro in più sfumature di colore. A raccontarli così sembrano ironici, ma avendoli visti da vicino e toccati vi dico che sono trattati con la stessa serietà e dignità di ipotetici personaggi reali sobri ed ottocenteschi. Guardando bene, non vi sembra di “intravedere” un colletto inamidato o una languida acconciatura di treccine?
mi piace, una persona che non continua fare sempre le stesse cose, finalmente!
grazie Valeria, sono commossa. L’inquietudine. L’inquietudine è ogni giorno più intensa lasciando a ieri l’idea di tranquillità. Un abbraccio forte forte. Sei bravissima