Giovanni Corvaja: “microscopica” stregoneria
Tutti i gioielli per poter essere davvero apprezzati dovrebbero essere visti da vicino, da molto molto vicino. Questo vale ancor di più quando si tratta delle opere (non posso chiamarle solo gioielli, mi sentirei un po’ sacrilega) di Giovanni Corvaja. Per le sue serve un lentino da orafo. Ma anche una normale lente d’ingrandimento va bene. Già le sue creazioni sono stupefacenti, ma non riesci a capirle fino in fondo se non le guardi come le ha guardate lui nel momento della creazione… quasi al microscopio. A me è successo esattamente così: avevo visto le sue spille in un libro: perfette e cerebrali. Poi avevo visto altre opere – mi ricordo benissimo un anello con micro palline di smalto di vari colori – a Collect 2009 a Londra. Mi ricordo anche della spilla spiga di tutte le sfumature delle leghe d’oro al museo degli Argenti.
Poi finalmente l’incontro dal vero, da vicino. E quando parlo del lentino non scherzo. Giovanni Corvaja nel suo atelier di Todi mi mostra subito il suo ultimo lavoro di cui purtroppo non ho la foto, ma la descrizione dovrebbe bastare per darvi soprattutto la sensazione. Un fascia cicciotta e bombata di oro con una microscopica (e sottolineo microscopica a ragion veduta) granulazione di platino (cioè come dei minuscoli pallini) che formano altrettanto minimi esagoni all’interno e all’esterno della fascia. 4250 fori. Due mesi di lavoro. A vederlo così, già da molto vicino è un oggetto bello e perfetto, gradevolissimo da toccare, non eclatante però. Ma poi arriva il lentino che Giovanni mi porge. Qualche difficoltà nella messa a fuoco, ma poi! La scoperta: i pallini della granulazione mi si ingigantiscono davanti agli occhi, tutti esattamente uguali, perfezione moltiplicata, gioco geometrico ineccepibile. In realtà non capisco se l’anello si è ingrandito o sono io che mi sono rimpicciolita tanto da averlo alla mia portata per esaminarlo nei minimi dettagli. L’emozione è lì. Ed è stata lì, nella scoperta ravvicinata di tutto quello che Giovanni mi ha mostrato, nel suo racconto di misure infinitamente grandi (numero di ore di lavoro, chilometri di filo d’oro, aghi) e infinitamente piccole perché con lui si scende negli abissi del millimetro fino a meno tre zeri cioè a 7 micron. Cioè l’invisibile. Quasi.
Il viaggio continua con un braccialetto tridimensionale costruito “in piedi” come una torre per il quale ci sono voluti 1250 aghi attorno al quale il filo d’oro ha lavorato (per Giovanni siamo in dimensioni ancora macroscopiche, 0,25 mm). Poi è la volta della spilla rettangolare con la macchia di niello (una lega di colore nero) al centro. Sono come tanti ciuffetti di microchiodini come un praticello.
Arriva la spilla “26 leghe” cioè fatta con altrettante leghe dove di volta in volta c’era più argento o più rame o più nickel o più zinco. Preparazione leghe: tre mesi. Realizzazione spilla, un mese. Il lentino è sempre accanto a me e mi aiuta nel’esplorazione di questo mondo. Ne ho particolare bisogno per la spilla in cui i chiodini famosi sono ritorti e qui ho messo un particolare ingrandito perché vi assicuro che a occhio nudo non avevo capito come fosse fatta.
Poi c’è una spilla, del 1998, che mi piace particolarmente e di cui pubblico qui la foto, l’unica di quelle fatte da me sul posto (Giovanni che è un perfezionista, non me ne vorrà, spero). Al centro c’è una specie di lanugine di filo di platino e palline d’argento che un tempo erano chiare, ma che ora, senza chiedere il permesso a nessuno, si sono ossidate diventando nere. Al tatto questa nuvola di filo è assolutamente morbida, elastica e indistruttibile. Mi piace l’idea dell’oggetto che si è trasformato “prendendo un’iniziativa” autonoma a prescindere dal proprio creatore. Mi ci sono affezionata.
La giornata di Giovanni è lavoro lavoro lavoro: e comunque realizzare cinque pezzi all’anno è già un buon risultato, mi spiega. A volte il ritmo è stato anche più intenso come durante la preparazione della serie Golden Fleece (Vello d’oro) di cui ora vi parlo. Non c’era giorno e non c’era notte: lavorava praticamente sempre con piccole pause di sonno… La serie vello d’oro è una cosa pazzesca. La chiamo la serie peluche (forse troppo irriverente?), ma il concetto è che il filo d’oro forma una superficie che alla vista e al tatto morbida pelliccia. Qui siamo a 16 micron per il filo. Oltre ai “classici” pezzi come l’anello che ho pubblicato qui c’è anche un’opera assolutamente fuori da ogni regola: un colbacco stile zarina con il bordo appunto in pelliccia d’oro. Mai visto prima.
Rimaniamo nell’ambito del mai visto prima. Giovanni mi tira fuori la sua ultima sorpresa. È la prima volta che la mostra. Che onore! Una teca nera rettangolare. La apre. Dentro c’è un fazzoletto. Immaginate un fazzoletto da uomo, della dimensione di uno da donna (quando ancora usavamo quelli di stoffa). Solo che non è di cotone, ma di filo d’oro. Una semplicissima follia. Mai è esistito un oggetto così. Mai esistita una fibra solo di oro. Mi spiega Giovanni che anche nei tessuti antichi l’oro, in forma di lamina a torciglione, ricopriva una fibra più tradizionale come il cotone o la seta. E mi mostra – sempre grazia al mio amico lentino – alcuni esempi di questi fili antichi. Per il fazzoletto: 7 mesi di lavoro. Il filo con il quale è tessuto è di 0,007 millimetri, 7 micron. Per poter essere tessuto questo filo va a formare una treccina che è a sua volta formata da tre mazzetti di 98 fili. Il risultato è un fazzoletto morbido un po’ più pesante di uno di cotone, ma piacevolissimo da toccare che si può lavare e stirare!! Non siamo più nemmeno nel dominio del gioiello contemporaneo, né dell’arte. Siamo entrati nel mito, nella stregoneria, nella leggenda. Una sfida un po’ mefistofelica dell’uomo alla natura. Si può andare oltre?
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