Diari di vetro – Federica Sala
Ho intervistato per il blog la prima volta Federica Sala nel 2016 a Monaco di Baviera nella settimana di Schmuck dove, uscita da poco dal master di Alchimia a Firenze, presentava gioielli molto interessanti e una tecnica propria per “incastonare” le pietre nel vetro. In questi anni Federica ha continuato a lavorare e sperimentare confermando che il tratto distintivo del suo lavoro è il vetro con … qualcos’altro! Ci siamo riviste poco tempo fa a Parigi ed ecco qui la nostra lunghissima chiacchierata, orientata da sole tre domande, per fare il punto sull’oggi e sulle prospettive. Parliamo di gioielli, parliamo di oggetti, parliamo di soddisfazioni e delusioni, energia, determinazione, expertise e futuro.

Partiamo subito dagli ultimi lavori che hai portato al Salon du Verre qui Parigi in ottobre: vasi di vetro soffiato e metallo dal nome Prigioni. Qual è la storia di questo progetto e perché questo titolo?
I vasi Prigioni arrivano da una riflessione e un’analisi personale ed estremamente lucida sul mio lavoro e sulle mie capacità, in un momento e un anno per me cruciale, il 2021. Da libera professionista, artigiana e artista, mi sono trovata improvvisamente senza nulla, con enormi dubbi: avrei potuto continuare con il mio lavoro? La pandemia ha letteralmente cancellato i progetti su cui avevo investito moltissimo in termini economici, di tempo, di energie, ma anche per le aspettative. A questo si aggiungevano anche vicende personali vissute negli anni precedenti. Dal forte sentimento di paura di perdere tutto quello che avevo costruito e desolazione al pensiero di rinunciare a quello che sono e quello per cui ho sempre fatto enormi sacrifici, ho raccolto la determinazione per valutare in modo obiettivo la mia situazione: in che cosa ero brava? in che cosa quello che sapevo fare era unico e riconoscibile? e c’era spazio per questo nel mondo del lavoro? La risposta è stata chiara: la ricerca col vetro. Ho fatto però anche i conti con la mia posizione geografica. Il mio lavoro coi gioielli è sempre stato molto apprezzato in America, quasi sconosciuto invece in Italia. La pandemia rendeva necessario ripensare al mio posizionamento.

Con questa consapevolezza ho cercato mentalmente di superare i limiti del mio campo d’azione e, riflettendo esclusivamente su cosa fare con il vetro attraverso la mia ricerca, ho iniziato a pensare e poi a disegnare i vasi Prigioni. Ho mostrato i primi schizzi a un’amica che lavora coi fiori. La sua reazione entusiasta è stata sufficiente per darmi il coraggio necessario.
Mi ricordo perfettamente la prima fase della prototipazione e quella telefonata che ho fatto in una mattina di tarda primavera alla soffieria con cui lavoro, dichiarando che se questo lavoro non avesse funzionato, avrei dovuto smettere… I primi pezzi sono stati mostrati nel 2022, poi, nel 2023 il lavoro è stato preso per GrassiMesse a Lipsia. Da lì, l’invito della curatrice a partecipare alla meravigliosa mostra l’anno successivo a Regensburg (Ratisbona ndr). L’apprezzamento del mercato tedesco mi ha permesso di propormi in Italia dove ho mostrato il lavoro in diversi contesti, allargando il mio pubblico e suscitando l’interesse anche di persone molto lontane dal mondo del gioiello contemporaneo. Si è innescato un processo virtuoso grazie al quale la mia ricerca ha potuto continuare e arricchirsi ulteriormente, non più vincolata a un solo campo di applicazione, bensì esclusivamente legata all’expertise nell’utilizzo personalissimo del vetro.

Il titolo Prigioni ha più significati e spiegazioni. Il più immediato è visivo: i vasi in vetro sono prigioni del metallo che li tiene, trattiene e forza in determinate forme. Ma l’aspetto concettuale, la sensazione e le emozioni di cui questi oggetti si fanno portatori è egualmente prioritario: i vasi Prigioni sono per me la visualizzazione di un confronto tra due elementi, da cui deriva uno schema gerarchico e una connotazione negativa, un senso di costrizione, un’istantanea di cattività, ma anche, per associazione, un desiderio di libertà, di fuga e un senso di ribellione. Il vetro spinge contro il metallo e lo supera. Trova la sua via, nonostante tutto. Resiste. Il metallo lo ha costretto e lo circonda, ma il vetro si riapre, si espande, lo supera in volume, e vince, anche se la sua trasparenza rende questa vittoria silenziosa e poco eclatante.

Un momento importante del 2025 è l’esperienza di artist in residence al Corning Museum Studio, nello Stato di New York. Una sfida impegnativa anche per un risultato tecnico innovativo?
Difficile spiegare quello che ho provato quando sono stata selezionata come artist in residence al Corning Museum Studio: da una parte questo rappresentava un riconoscimento estremamente importante alla mia ricerca col vetro, un grandissimo attestato di fiducia nel progetto sottoposto e supportato, e dall’altra sentivo molto forte la responsabilità di rispondere al meglio all’enorme opportunità che mi era offerta. Il periodo di residenza è stato unico, intenso, ed estremamente produttivo. Al mio rientro mi sono sentita “ricca” di prospettive, valorizzata, fiduciosa e spinta a continuare, tutte sensazioni che personalmente costituiscono, oltre ai pezzi fisici, il vero valore di questa esperienza. Grazie ai supporti tecnici, ai servizi, all’organizzazione e all’ambiente in cui si svolge, ho potuto raggiungere risultati importanti in un periodo relativamente breve. A Corning ho gettato le basi per moltissimi possibili futuri sviluppi del mio lavoro, mettendo a fuoco in modo molto più evidente le peculiarità del mio agire.

La residenza aveva un duplice scopo: iniziare la produzione di un nuovo corpo di lavoro in cui gioielli e oggetti in vetro raccogliessero una lontana eredità di funzione narrativa antropologica, riportando al centro il valore del vetro come materiale immanente, adatto alla comunicazione di valori da conservare e tramandare nel tempo. Il tempo, fattore chiave del progetto, costituisce parte integrante del processo e del valore dell’oggetto. La realizzazione di questi pezzi prevedeva l’utilizzo di una tecnica di lavorazione mista, attraverso la quale viene prima creato un nuovo materiale grezzo, costituito da vetro e pietre, che successivamente viene lavorato a freddo con tagli, molature e lucidature. L’intero processo richiede un impiego di tempo ingente e uno “spreco” di materiale significativo, tale da necessitare un grande supporto economico per la realizzazione e un tempo di esecuzione esclusivo e di totale devozione al processo, fisicamente logorante. I gioielli hanno richiesto quindi un tempo di lavorazione lunghissimo, organizzato e diviso in più fasi, una concentrazione e un impegno continuativo, sette giorni su sette, per 13/14 ore al giorno, per cinque settimane. Un lavoro simile, prettamente artistico, poteva essere svolto solo ed esclusivamente nell’ambito di una residenza d’artista.

Al lavoro durante la residenza a Corning 
Il secondo obiettivo della residenza era spingere avanti la mia ricerca di inclusione di pietre nel vetro con tecniche e vetri differenti. Un passaggio ambizioso per cui ero preparata più che altro a un fallimento, visti i test condotti in precedenza nel mio laboratorio! Inaspettato invece è stato il risultato positivo che invece ho raggiunto, legato alla possibilità di applicare con successo inclusioni di alcune pietre anche in altre tipologie di vetro. Questo ha ampliato decisamente il panorama delle future applicazioni e dei possibili lavori che possono essere intrapresi permettendo tra l’altro di attenuare quella sensazione di permanente incertezza legata al rischio di fallimento che si ha quando si comincia un lavoro così delicato. Dico questo perché i test condotti con il tensiometro, lo strumento che verifica lo stato di tensione interna del vetro, sono stati tutti positivi: un risultato sorprendente!
Aggiungo tuttavia che da un punto di vista artistico e più concettuale, la presenza di piccole tensioni e fratture, non mi disturba, anzi. Spesso contribuisce a rendere il vetro ancora più “vivo” e “adatto” alla mia scelta narrativa ispirata all’effimero nei corpi e al significato di valore degli oggetti.

Mi hai mostrato alcune fotografie del lavoro di Corning, come quella qui sopra, che unisce l’oggetto e il gioiello: sono uno il completamento dell’altro? Due facce dello stesso processo artistico?
Lavorare con le mani è un modo per capire me stessa, il mondo che mi circonda e la mia capacità di metabolizzarlo. Negli anni, sto maturando una consapevolezza dei reali spunti che muovono la mia ricerca, un percorso sempre aperto di crescita personale e professionale. Mi sento ora capace di accettare, analizzare e capire gli errori, e desiderosa di dare tempo al lavoro perché possa parlare, prima di tutto a me, che l’ho creato. La materia è fisica e, a dispetto delle sensazioni e dei pensieri, risulta essere per me un più convincente diario di una vita.
I gioielli sono oggetti che parlano di corpi, ma anche gli altri oggetti che utilizziamo più o meno quotidianamente, parlano di azioni, abitudini, tempi. La funzione è determinante, così come la necessità di rimandare al corpo. Il gioiello è “solo” uno di questi oggetti.

Mi è capitato spesso di pensare ai gioielli che realizzo nel momento in cui non vengono indossati. Sono sempre stata attratta dal concetto di gioiello come oggetto decorativo non solo del corpo, ma anche all’interno di uno spazio, a ricordo del corpo che lo ha indossato o suggerendo la presenza di un corpo che potrebbe indossarlo. Il pensiero di continuare a rendere parlante un gioiello come fosse un bicchiere, un vaso, una sedia, mi affascina. Non tutti i gioielli possono essere sempre indossati. Ma l’idea del corpo, come per una sedia l’idea di accogliere un corpo seduto, deve essere sempre presente. Forse è anche per questo che mi concentro moltissimo sul realizzare collane. Il buco è uno spazio da riempire. La forma della collana segna il perimetro di un collo. Ovviamente, rispetto ad altri oggetti, il concetto di indossabilità è centrale. Il valore che personalmente attribuisco al gioiello trascende però dalla presenza del corpo che lo indossa. aggiungendo altro, ovvero la dimensione scultorea e performativa del suggerimento del corpo. Il piacere di possedere un gioiello deve per me andare oltre alla soddisfazione legata all’indossarlo. Come dicevo prima, possedere un oggetto vuole dire possedere una traccia, un racconto di un pezzo di storia. Questa storia può essere raccontata in movimento, sul corpo, ma continua a esistere anche senza quel corpo. Per rispondere alla tua domanda: ho bisogno di “risolvere” questo pensiero complesso con oggetti che dialogano con i gioielli, parlando degli stessi temi, delle stesse storie, ma con funzioni diverse e dunque con possibilità diverse di vivere il pezzo.

La mia ricerca è una, applicata a pezzi diversi, ma l’origine è la stessa, che sia gioiello, vaso, ciotola, bicchiere… parto dalla loro funzione primaria e declino la mia ricerca materica per ognuno di essi, includendo la mia personale interpretazione di quella funzione, in quel momento. Così facendo, ho tenuto traccia di quel periodo. La mia traccia, sicuramente, ma anche la traccia di una storia che nello stesso momento è appartenuta ad altre persone che come me, vivono avvenimenti micro e macro, spesso inspiegabili, incomprensibili, ingiustificabili.
In alto: Untitled, urna, 2025, vetro, ossidiana. Ph. Corning Museum Studio





Discussion about this post