Frasi senza parole

“I gioielli dovrebbero conferire dignità, donare bellezza, suscitare una risposta erotica, segnalare intenzione, proteggere chi li indossa, evocare rabbia, insultare l’intelligenza, dire qualcosa, mancare di ambizione, offrire certezza, esaudire il desiderio, affrontare l’apatia, trasmettere spiritualità, fare apparire sciocco chi li indossa, riflettere lo spirito dell’epoca, fornire uno status, provocare fastidio, comunicare disponibilità, emancipare chi li porta, prendere posizione, mostrare voglia di vivere, essere indifferenti a ciò che pensano gli altri, rivendicare un significato nazionale, incoraggiare l’audacia, essere geometrici, essere flosci…”

Non si potrebbe forse dire meglio — e dire di più — parlando del gioiello. Mi piace cominciare così, rubando queste parole dall’archivio personale di Warwick Freeman, citate da Kim Paton, direttrice della galleria Objectspace di Auckland nel suo testo per il volume Hook Hand Heart Star edito da arnoldsche Art Publishers.

Questo è naturalmente anche il titolo della mostra che la Die Neue Sammlung di Monaco di Baviera dedica all’artista neozelandese, inaugurata a marzo durante la Munich Jewellery Week 2025 e visibile fino a metà giugno. Una mostra che è molto più di una retrospettiva: è un invito a entrare nel pensiero di un artista che ha fatto del simbolo, della materia e del paesaggio il proprio lessico.

Il suo lavoro si sviluppa intorno a una riflessione costante sull’identità culturale, la memoria dei luoghi, i materiali della sua terra. Questi sono spesso lava, osso, scoria, giada, madreperla, a volte raccolti nella zona vulcanica di Auckland.
Warwick Freeman, nato nel 1953 a Nelson, si avvicina al gioiello negli anni Settanta e diventa presto una delle figure più influenti della scena del gioiello contemporaneo dell’emisfero australe.

Freeman non crea ornamenti. Costruisce frasi. I suoi gioielli non decorano, raccontano. L’amo da pesca, la mano, il cuore, la stella del titolo sono archetipi che si intrecciano a storie locali e universali, che parlano di cura, sopravvivenza, appartenenza, desiderio. E lasciano a noi, osservatori, la possibilità di attribuire significati, di creare le nostre personali connessioni.

Le origini poetiche di questo modo di raccontare risalgono al 1987 con Fern Fish Feather Rose, quattro elementi — una felce, un pesce, una piuma, una rosa — disposti come ad evocare una poesia (qui sotto). Oggetti apparentemente decorativi, che però, nella loro combinazione, diventano dichiarazione. La felce, emblema nazionale neozelandese, convive con la rosa — fiore europeo per eccellenza — mentre il pesce e la piuma evocano la caccia, la sopravvivenza, il viaggio.

Ma la poesia diventa vera e propria frase. Ne è un esempio Insignia del 1997, composta da uno scudo di arenaria e quarzo, un tondo rosso di diaspro, una foglia di karaka di pietra verde, un occhio di madreperla, un uccello di tartaruga e un teschio inclinato di osso. Sembra un rebus arcaico, un geroglifico, da leggere da sinistra a destra una vera scrittura simbolica aperta a traduzioni personali.

Freeman si definisce Pākehā, termine Māori per indicare i neozelandesi di origine europea. La sua arte è profondamente segnata da questa tensione tra ciò che gli appartiene e ciò che lo precede. Appartenenza come domanda, mai come diritto.

Nel suo saggio When is a Hook a hei matau?, incluso nel catalogo, Karl Chitham, curatore e direttore del Dowse Art Museum, esplora il modo in cui Freeman ha reinterpretato il hei matau, l’amo da pesca stilizzato della tradizione Māori, simbolo di forza, fertilità e viaggio sicuro sull’acqua. La domanda di Chitham — “Quando un amo è un hei matau?” — è anche una domanda su autenticità e appropriazione. Ma Freeman, pur citando e trasformando quei simboli, non li svuota: li attraversa con rispetto, consapevole della complessità.

Ma tornando indietro nel tempo alle origini del percorso artistico di Freeman riavvolgiamo il filo fino a un momento chiave: l’incontro con Hermann Jünger, professore dell’Accademia di Belle Arti di Monaco, nel 1982, durante un workshop in Nuova Zelanda organizzato dal Goethe-Institut. Un episodio che Petra Hölscher, curatrice della mostra, racconta in profondità nel suo saggio, avvalendosi di una lunga intervista tra Freeman e lo storico dell’arte Damian Skinner.

Jünger non portò un metodo, ma una postura. Come ricorda Freeman: “Non ci stava insegnando a fare gioielli come i suoi. Ci stava insegnando a pensare. A mettere in discussione cosa stavamo facendo e perché.” Fu una svolta. Per Freeman e per molti artisti neozelandesi di quella generazione. Non più solo “creatori di oggetti”, ma artisti nel senso pieno del termine. “La strada che Hermann mi fece percorrere era quella di un artista che lavora. Non era tecnica, era esistenziale. Era l’idea che si potesse investire una vita in questa pratica — e che ne sarebbe valsa la pena.”

Un esercizio in particolare rimase scolpito nella memoria: considerare il cerchio. Non disegnarlo, non usarlo. Meditarlo. Il cerchio come forma completa, ma anche come apertura. Freeman dice: “Quel cerchio è tornato a bussare tante volte, negli anni. Era un invito a restare dentro la domanda, a non cercare soluzioni rapide.”

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